Chiese e Frazioni
Di Cervinara si fa menzione, la prima volta, nella Cronaca del Volturno (Chronicon Vulturnense) riportata dal Di Meo negli Annali, dove si legge che, nell’anno 837, gli ex duchi longobardi di Benevento (era principe Sicardo, succeduto al padre Sicone), in cambio di alcune terre e chiese date ai frati del monastero di San Vincenzo al Volturno, presero da essi, fra gli altri beni, il Castello di Cervinara (inteso come Castrum, ovvero borgo militare racchiuso dalle mura nel paese dei Caudetani=Caudini, sorto intorno al Castello o ad una torre di avvistamento), sito presso le forche Caudine, ossia “Castrum quod dicitur Cerbinaria in Caudetanis”.
Più che un Castrum da difesa di proprietà dei monaci, bisognerebbe però parlare della terra dove ricadeva il Castello dei Caudini, probabilmente fatto costruire dagli stessi Longobardi che, dopo l’entusiasmo della conversione al cristianesimo, rivendicarono l’acquisizione delle terre conquistate dai loro padri. Territori dove, fin dai tempi dei Sanniti, non erano mancati degli insediamenti indigeni, ovvero degli Oppidi recintati da mura, costituiti da case, stalle e animali.
Sui resti di alcuni di questi Oppidum erano poi sorte delle fortezze a protezione delle distruzioni operate dai Romani. In verità, alcuni sepolcreti della zona, che hanno restituito strutture murarie e materiali architettonici, testimoniano una presenza anteriore al III secolo a.C., relativamente a Ville rustiche esistenti nella zona di Valle e di Castello, le famose Starze (di cui spesso rincontriamo il nome nelle frazioni dei nostri paesi), o stazioni, costruite per il riparo, di uomini e animali durante gli spostamenti da Oppidum ad Oppidum sannita.
Le stesse, quasi sicuramente, ma è una convinzione tutta nostra, servirono poi da riparo a legionari e postali che si spostavano da città a città romana, assumendo le sembianze di ville, delle ville-masserie appunto, fulcro amministrativo dei grandi appezzamenti terrieri e montani che mantennero più o meno le divisioni che riscontreremo con le corti longobarde. In alcuni casi erano affidate a sacerdoti direttamente dall’imperatore. Essi avevano il compito di pregare per gli Dei e per Roma, ereggendo un tempio e creando un culto alle divinità pagane anche sui più remoti territori conquistati. Su quei latifondi, suddivisi ed affidati ai patrizi romani che avevano combattuto e vinto i Sanniti, nacquero ancora delle vere e proprie ville coloniali a vista o a guardia della strada principale, come nel caso dell’Appia.
Non era necessaria la presenza dell’acqua potabile, in quanto i romani erano maestri ad incanarla direttamente dalle sorgenti di montagna (ischie) attraverso dei cunicoli sotterranei, creando degli sfiatatoi in superficie, quelli che ancora ritroviamo e chiamiamo pozzi chiusi, collegati perpendicolarmente fra loro. Abbiamo infine le tombe dei patrizi, costruite sui colli più alti, oltre le colonne e le pietre miliari, sempre lungo grandi strade come l’Appia. Nei pressi di questi sconvolgimenti dell’aspetto naturale del territorio (la città di Caudium, i vari Oppidi sanniti, Starze, Ville romane, Ville patrizie, Tombe e Templi), e più specificatamente sui resti degli stessi, le civiltà si sono sovrapposte alla meglio nei secoli, fra una distruzione e l’altra, dopo una grande o piccola battaglia, una sterminante o leggera epidemia. Scegliendo ora una Villa, ora un Oppido, ritornando casomai alla Starza, o facendo tappa su un tempietto, le poche tribù di Caudini sopravvissero con la pastozia e la caccia negli anni più bui, finché non furono accolte nelle braccia della Chiesa di Benevento, ovvero restando nei territori che abitavano, dove aveva giurisdizione il potere temporale della Chiesa (che era già della Chiesa di Roma, che fosse stato in qualche modo Terra di Gerusalemme o di Bisanzio, in questo periodo così nero in quanto a notizie, è solo un particolare.).
Diciamo che alcuni ordini religiosi, di origine a noi ignota, ma di diramazione beneventana, provvidero ad inviare dei monaci per costruire Chiese a destra e manca, delimitando i propri beni. Per coltivare quei terreni fu poi necessario l’impiego di intere famiglie di servi della plebe. I poveri eremiti, non avendo mezzi a sufficienza per edificare Cappelle, quasi sempre si ritrovarono ad utilizzare materiali di risulta preesistenti. E di che cosa servirsi se non di pietre, ferri e legni provenienti da tombe, starze eccetera.
E come chiamarli quei luoghi se non coi nomi naturali che già avevano, legandoli ai simboli o ai culti che li avevano preceduti? Il metodo seguito fu lo stesso, per molti secoli, nel 500 come nel 1000. (Ad esempio, per il monte Vergine sarebbe nato il culto a Santa Maria Genitrice di Dio sita a valle, zona Embreciera di Summonte, al confine tra la Contea di Avellino e quella di Benevento, dipendenza beneventana di San Modesto. Sulle tombe ritrovate, qualche volta gridando al finto miracolo, del tipo San Modestino di Mercogliano, forse mai esistito in quanto la tomba era di un soldato romano, con tanto di iniziali sopra, o come successe posteriormente con Santa Filomena).
Attorno a delle piccole chiese, tanto per essere semplici, abbiamo detto che giunsero dalle abbazie centrali delle famiglie monastiche prima e dei vassali con i servi della plebe poi, per dissodare, coltivare e creare rendite.
Quando si cominciarono a conoscere e suddividere i latifondi, a Benevento si pensò bene di vendere, permutare, cambiare, unire e via discorrendo, terreni, e famiglie di vassalli (avevano fatto nascere dei Casali abitati dai contadini) ad altre Chiese, orfanotrofi o privati cittadini liberi delle varie province sannitiche. Un paradiso quasi terrestre, insomma, che era stato sconvolto dall’arrivo dei barbari a Benevento.
Ma l’opera dei cristiani, diffusasi ormai nelle città e nei luoghi di culto più grandi, aveva convertito perfino i Longobardi beneventani che, nei primi anni, non seppero far altro che costruire fortezze militari, guardandosi in cagnesco l’uno contro l’altro. Innamoratisi poi i principi del monastero femminile della Chiesa di Santa Sofia, si convertirono al cristianesimo e continuarono ad abitare nei loro freddi Castelli per far costruire armi, ponti, strade e muraglioni e permettendo alla Chiesa di amministrare i territori assoggettati. I Longobardi, nel frattempo, esauritosi l’entusiasmo iniziale dell’assoluzione, non sapendo che fare, dovettero scocciarsi e cominciarono a vantare qualche diritto.
Anche perché i tempi cambiavano e c’erano altri barbari, più barbari di essi, che tagliavano le teste e venivano dall’Oriente. Il Castello di Cervinara, prima dell’837 era dipendente dall’abate di San Vincenzo al Volturno, ma la proprietà della fortezza militare – lo pensa Barionovi – dovette essere dei Bizantini. Di certo appartenne ai principi longobardi di Benevento e seguì la sorte di questa città finché restarono i Longobardi nella terra beneventana della Chiesa.
Con la comparsa dei Saraceni nella zona, chiamati dai Napoletani contro Sicardo, erano nati Castelli a destra e a manca per proteggere le case dei contadini che tendevano ad avvicinarsi alla cinta del Castello per sentirsi protetti. Scontri violenti fra gli invasori, calamità, distruzioni: sono duecento anni in cui nessuno sa cosa successe. Di una curtis nel Castello di Cervinara, però, si parlerebbe in un documento dell’anno 1000 dell’abbazia di Santa Sofia di Benevento. Fu allora che devono essere nate anche le annesse chiese di San Filippo, già distrutta alla fine del 1500 in quanto si accenna appena ad una selva, e di San Giovanni in Castro (ovvero in Castrum=Castello).
Di certo esisteva la Chiesa di San Nicola (detta parrocchia nel 1655) con una attigua Curtis, entrambi site nel Castello di Cervinara. Giunti i Normanni, la Valle Caudina e tutti gli ex Oppidum sanniti sopravvissuti ai Saraceni in essa racchiusi furono da Re Ruggieri (o Ruggero II) dati in dote alla sorella Matilde de Hoteville, che sposò Rainulfo Butterico conte di Avellino. Ruggiero era il primo re normanno della Sicilia, figlio di Ruggeri I principe normanno, il quale, fatto prigioniero Papa Innocenzo II, da lui si fece cedere il ducato di Puglia e il principato di Capua.
Dopo il 1108, in cui si parla nuovamente del Castrum inteso come fortezza, si sa qualcosa anche del Castellum: un agglomerato abitativo (borgo fortificato) comprendente case coloniche, casalia hominum, ai tempi, appunto, della dominazione normanna. Successe poi che Castello e borgo dovettero essere distrutti dagli invasori, in quanto la terra fu assorbita dal vicino Castello di Arpaia che il conte Normanno aveva scelto come sede politico-amministrativa dell’intera Contea.
Castello che dovette accogliere anche i casalini superstiti veri e propri di chissà quale battaglia se è vero che nel 1127 si parla di ex Castello, zona in cui la Chiesa, approfittando dei litigi comitali, incrementò l’invio di monaci, per nuove e vecchie fondazioni ecclesiastiche, con al seguito intere famiglie di casalini da utilizzare per dissodare le terre. Cervinara dunque, guardata da due militi, ricadeva sotto il comando di un conte, il comes Malcerius, al quale (se non si tratta della stessa persona successe Malgerii o Malgerio), ma non era feudo a sé, era parte integrante, quindi suffeudo, con Arpaia, dove, dopo il 1150, aveva il suo demanium Roberto Sansoni de Molino (o De Molinis), signore di Arpaia e Cervinara.
Null’altro apprendiamo dal catalogo dei baroni Normanni su questo periodo, essendo annoverato solo Arpaia, in quanto mai è citato un Castello di Cervinara, bensì solo il feudo di un milite. Il Di Meo riferisce che nel 1132 Matilde de Hauteville venne in rottura con Rainulfo, rifugiandosi dal fratello a Salerno, si lagnò e protestò in quanto non voleva più unirsi al marito, e rivoleva indietro la dote.
La già nota contesa fra Re Ruggieri ed il conte di Avellino a questo punto si inasprì e il conte, con un esercito di 3.000 cavalieri e 40.000 fanti, si recò nei suoi Castelli della Hauteville in Valle Caudina (non è detto Cervinara), dove aspettò l’assalto del cognato. Guerreggiò per ben tre anni, fino al 1135, quando fu sconfitto e tutte le terre e gli oppida della Valle furono posti a sacco e fuoco, eccetto Montesarchio ed Arpaia, unici due luoghi fortificati esistenti per certo.
Con il sopraggiungere degli Svevi, con Federico II sul trono del Regno di Sicilia, non volendosi arrendere, la Valle Caudina fu nuovamente distrutta e messa a fuoco al passaggio delle truppe del re, che ridussero in briciole il borgo e il Castello di Cervinara, già ricostruito per la seconda volta da Rainulfo II.
Subito dopo il re ordinò, siamo nel 1240, che il Castello di Montesarchio fosse elevato a dignità imperiale, come nel caso di Pietrastornina, Avellino ed altri, e quindi ad avere giurisdizione sull’intera sotto-provincia foggiana della Valle Caudina, per essere stati, gli altri Castelli rasi completamente al suolo, ma anche per darsi un’immagine, un tono, adesso che c’era un potere diverso, c’era uno stato nuovo: il Regno di Sicilia.
Nel 1240 appunto, Cervinara, unitamente a San Martino, era tenuta alla riparazione, alla guardia e alla custodia del Castello imperiale di Montesarchio, ove c’era un fidato giureconsulto dell’imperatore, ivi insediatosi per l’amministrazione dei feudi e il controllo degli stessi signori, oramai tutti fedeli di Casa Sveva. Nel 1250, milite (sempre dell’ex Castello di Cervinara) era il suffeudatario Soaldo Cappello; nel 1270, Cunsio de Morello e, nel 1273, Bartolomeo De Luciano.
A Cervinara però, anche se non c’era più una sede politica nel Castello, era nato un primo palazzo, esistente nel 1251, detto “Palazzo della Chiesa di San Matteo”, ferma restante la proprietà del monastero di San Gabriele di Airola, quantizzabile in ben 120 casalia hominun, costituiti dalle case e dai naturali di quell’ex Castello addetti a coltivare la terra della fondazione ecclesiastica di Airola. Si tratta di case sparse, come confermato in un documento del 1273 in cui si parla di usurpazione di 15 casate di coloni, ai danni del monastero di San Gabriele, che nella zona già possedeva anche le tre chiese di San Celestino in Monte Virgilii, San Vitaliano e San Felice “ubi dicitur ad Collina” (probabilmente si tratta di San Felice a Cancello).
Del monastero di San Gabriele erano anche la Chiesa di San Festo, in località Marmora, forse alle Campizze di Rotondi, presso la strada regia. La Chiesa di San Gennaro ai Ferrari, sita di fronte al palazzo marchesale, è un’arcipretura esistente nel 1280 e forse anche anteriore al 1250, essendo già menzionato un arciprete, incarico che, nel 1343, poteva permettersi di eleggere parroci, conferire ordini e sospendere sacerdoti. Nel 1367 comparirà Santa Maria della Valle; nel 1350 San Pietro; di un Campo San Pietro si parlerà nel 1318: i Casali erano già nati. I Pantanari dovettero essere zona di Montevergine, il monastero che ivi possedeva il priorato di Santa Maria delle Grazie fin dagli inizi del 1334, allorquando abbiamo il primo priore.
Il materiale col quale fu ricostruita, però, dovette appartenere ad una Chiesa precedente, in quanto, gli elementi lapidei ritrovati sono del 1150 circa e alcuni capitelli fanno preciso riferimento al Chiostro di Santa Sofia di Benevento. Sappiamo poi della donazione di una Cappella e di una riedificazione della Chiesa e campanile nel 1526. (Soppressa nel 1653, fu annessa al Seminario di Benevento e il convento e l’annesso giardino affittati, mentre la Chiesa andò in rovina. Ricostruita fu riconsacrata nel 1700.)
Nel 1133 era di Santa Sofia anche la Chiesa di Sant’Angelo, sita fuori la Porta delle mura del Castello, detta appunto di Sant’Angelo, come da un documento del 1390 e dalla successiva specificazione di Castro, dopo il 1590. San Biagio alla Collina, anticamente di monte Tolino, esisteva invece fin dal 1127. (La Chiesa di Sant’Angelo a Pitigliano faceva parte del distretto della parrocchia di Sant’Adiutore poco prima del 1600, ma probabilmente sita nel territorio di Rotondi, luogo ov’era anche la Chiesa di Sant’Andrea a Pitigliano che, nel 1700 apparteneva all’Università di Rotondi. Chiese minori come quella di San Paolino della parrocchia di San Nicolò e Santa Marina del Fondo appaiono più in veste di Cappelle nate per contraddistinguere la proprietà dei fondi.) In origine, gli abitanti dei Salamuni, non erano altro che dei coloni, forse inviati da Santa Sofia sui possedimenti contrassegnati dalla Chiesa di Sant’Adiutore “apud Montem Virginem” già nel 1120. Nel 1108, però, stranamente, il possesso è confermato al monastero di San Gabriele di Airola.
Comunque sia, Sant’Adiutore divenne parrocchia prima del 1333. Molti beni di Santa Sofia erano passati – evidentemente – da Benevento ad Airola. I monaci di San Gabriele si trovarono così a gestire un’enorme forza di uomini e terre. Il Casale di Valle, per esempio, esisteva nel 1273, come confermato nel 1339. Dei Pantanari si ha notizia a partire dal 1370; dei Ferrari invece si parla nel 1300, con l’annessa Chiesa esistente già nel gennaio del 1280. Durante la lotta tra Re Manfredi di Svevia ed il Papa, l’esercito pontificio, comandato dal cardinale Ubaldini, si era accampato da queste parti, ritrovando ristoro fra le varie dipendenze della Chiesa. Nelle succesive lotte con Re Carlo d’Angiò, vi si accampò poi il regio esecito angioino, poco prima di uccidere Manfredi nel 1266.
Quasi certamente, con l’arrivo degli Angioini nel regno, insieme al feudo, nacque l’Università dei Cittadini di Cervinara, la Terra di Cervinara. Non sappiamo però la data certa in cui l’Università degli abitanti aventi in comune il patrimonio, gli oneri e i debiti, si scelse anche il simbolo, uno scudo ovale in cui sono raffigurati un cerbiatto e una stella su un monte roccioso a tre punte, rappresentante l’appartenenza del Principato Ultra di Montefusco, sede dov’era il giustiziere e il capitano di guerra con i suoi servienti per la difesa della provincia. Il Comune si scelse anche un protettore, San Gennaro, da venerarsi nell’abbazia della Terra ad esso intitolata. Il feudatario, comprati tutti i beni possibili della Terra che erano stati incamerati dal re, permise così, volontariamente o involontariamente, l’unità politica e territoriale. Non un cervo dunque nello stemma, ma un cerbiatto o un capriolo.
L’Università di tutti i cittadini che abitavano i Casali sotto la giurisdizione del feudatario, oltre il diritto di eleggere dei sindaci (come nel caso del 1272 quando erano primi cittadini Ruggiero de Landolfo, Simone di Sasso e Ursone di Blasio) e di nominare un mastrogiurato per l’ordine pubblico una volta l’anno, aveva il dovere di pagare le tasse, da quella sui fuochi a quella sulla generale sovvenzione, sulla nuova moneta, sulla difesa della provincia, sulla custodia delle spiagge del mare, come risulta dai Registri della Cancelleria Angioina. Erano i tempi in cui a Cervinara abbiamo notizia di un dottore-fisico, il maestro Giovanni, e dell’avvocato Marziano.
Un po’ sfortunata fu però questa comunità che, già dopo la prima grande distruzione del 1135, tardò sempre la ripresa.Dalle carte dell’archivio di Montevergine esistenti nel grande archivio di Napoli, si ricava che Giovanni Sasso, arciprete di Cervinara, il 5 novembre 1399 donò a Montevergine una cappella che aveva fabbricato sotto il titolo di Santa Maria, sita accanto alla sua abitazione, nel Casale Pantanari, oltre a due case quali dimore di due padri da inviare al servizio della Cappella. Col tempo l’eremo fu ampliato ed elevato a priorato da Papa Paolo V il 19 maggio 1611.
Da una visita pastorale del 1526 veniamo a conoscenza che fu Fra Simone da Cervinara a dare inizio all’attuale Chiesa, sorta su quella precedente, portata a compimento dal monaco successore, Fra Minichiello di Cervinara, fino a giungere a noi come ruderi appartenenti alla famiglia Verna. L’arcipretura fu istituita prima del 1499, anno in cui abbiamo notizia di un arciprete, esistente in verità già da prima, nella Chiesa di San Gennaro del Casale Ferrari. Questa antichissima Chiesa, edificata nel corso del 1400, fu ampliata nel 1627 sotto don Cesare Ragucci, finché l’arciprete Pio Piccolo, sul finire del 1700, si elevò il titolo in quello di abate curato, con giurisdizione su più di un paese. Morto costui, seppellito nella stessa Chiesa, ci resta da ricorare un altro arciprete famoso, Giovanni Ghirardi, vicario apostolico e poi vescovo di Montemarano. Ghirardi, nato nel 1656 nel Casale di Scalamoni, fu conosciuto per la pubblicazione di due sinodi, della vita di San Giovanni e del modo di governare e di un altro libro: ragguagli per ben vivere nella vita civile. Passato a miglior vita nel 1745, fu seppellito nella Chiesa di San Giovanni a Cervinara.
La facciata della Collegiata di San Gennaro, attigua ad un campanile a finestroni ad arco, è del tipo a capanna con due ali laterali posteriori ed un portale di pietra del 1581, con il frontone spezzato da una nicchia in cui è custodita una piccola statua di San Gennaro, due finestre archivolate e due portoni laterali che danno verso l’interno a tre navate. E’ ritenuto il più antico luogo di culto, dove è possibile ammirare un coro ligneo del 1500, l’ex cappella privata dei marchesi Caracciolo, il sepolcro marmoreo del vescovo Giovanni Ghirardi, la tomba dell’ abate Ragucci e l’altare maggiore in marmi policromi. La Chiesa parrocchiale è quella di Sant’Adiutore ai Salomoni, già esistente nel 1688, come nel caso della Chiesa di San Potito agli Scalomoni, degli Ioffredo, di Valle e di San Marciano. Vi è poi il monastero dei Carmelitani con la Chiesa, a Trescine, e il monastero di Santa Maria delle Grazie ai Pantanari, di cui resta una cappella in rovina. Fra i Carmelitani si ritirò, nel 1693, Fra’ Elia Astorini, filosofo e medico, nipote del celebre Tommaso Cornelio, primo matematico napoletano che, a Cervinara, aveva fondato una scuola di matematica per giovani, come ben leggiamo nelle ricerche del Barionovi.
Nel 1270, la Regia Corte di Napoli possedeva diversi beni, in quel di Cervinara, affidati a Cunsio de Morello, poi al figlio Errico e, ancora, a Bartolomeo de Luciano che, nel 1273, era stato citato in giudizio dal monastero di San Gabriele di Airola per essersi impossessato di 15 casati di coloni nel Casale della Valle, precedentemente tenuti da un Cunsio di Airola. In reatà i beni non erano proprietà né dell’uno, né dell’altro, ma della Regia Corte alla quale ritornarono, prima di entrare in possesso dei feudatari francesi scelti dalla Corte per l’affidamento, da Ferrerio de Charalt prima, ad Isabella de Chauville poi. Carlo I d’Angiò, passato alla storia come un re prepotente e crudele, possessore indiscusso del Regno, nel 1279, aveva concesso l’intero feudo di Cervinara ad Isabella de Chauville. Nel 1288, l’ebbe un altro nobile francese, Giovanni della Leonessa, che si ritrovò molte terre incamerate dalla Regia Corte durante la conquista fra le quali quella di Cervinara.
Giovanni era maresciallo del Regno ed aveva sposato Filippa Gianvilla, imparentata con i reali di Francia. Nel 1283 anche il Casale di Valle venne dato in feudo a Giovanni di Lagonessa, il quale, due anni prima, aveva già comprato da Ruggiero de Molinis, forse un diretto discendente del signore normanno de Molinis, altri beni feudali, ottenendo la licenza per esigere la sovvenzione dei vassalli in quanto aveva servito il re per tre mesi quando era a Viterbo. Nel 1284 Guglielmo de l’Etendart voleva il riconoscimento, come feudatario del milite Riccardo Cappelli (forse discendente di Soaldo che nel 1256 era miles ex Castello di Cervinara), per i beni posseduti in Arienzo e Cervinara. A Cappelli successe il filglio Pandolfo, come suffeudatario de l’Etendart (detti degli Stendardo) che, nel 1303, concedeva ai fratelli Giovanni e Francesco de Gregorio due pezzi di terra sulla Croce. Morto nel 1295, il figlio Carlo, generale dei presidii e quindi Gran Siniscalco del Regno, ne ereditò i beni e sposò la figlia del conte di Ariano Caterina di Valdimonte (de Vaudemont) dei reali di Francia, con il titolo di maresciallo del Regno. I discendenti della famiglia francese di Guglielmo de la Gonesse, milite di Carlo d’Angiò al quale era stato concesso il Castello di Airola, si ritrovarono così a dividere la proprietà: Airola a Giovannuccio e Cervinara a Carlo.
Nel 1296 Carlo aveva prestato servizio militare per il possesso dei Casali di Pandarano, Leoncelli, Campora e Valle, facendo la “soccia di Ruggiero de Molinis”. Carlo aveva generato Giovanni ed Errico, che, nel 1314, successe nel possesso del feudo alla morte dei familiari. Errico era tenuto assai in considerazione dalla Regina Giovanna, al punto che in molti diplomi è chiamato “affine”.
Nel quinquennio dal 1316 al 1320, Cervinara fu tassata per 31 once, 26 tarì e 2 grana. Se si considera che con una grana si potevano acquistare una quindicina di cavalli, ne risulta che era uno dei paesi più ricchi della provincia, in quanto pochi altri erano soggetti a pagare una somma così elevata. Evidentemente i De La Gonesse vi costruirono un palazzo cinto di mura con delle porte per entrarvi, una delle quali era detta “porta Sancti Angeli”, perché dava sul confine della chiesa di Sanctum Angelum ad Carros. Carlo II della Leonessa fu il primogenito di Errico, e possedé i feudi paterni nel 1325, lasciandoli poi in eredità, nel 1350, al fratello Roberto che sposò Caterina d’Aquino, dalla quale ebbe Errico, marito di Sveva Sanseverino. Guglielmo Leonessa, figlio di Errico, ereditati tutti beni nel 1386, sposò Isabella Stendardo ed ebbe il famoso Marino, che li incamerò nel 1400, a cui successe Giovanni nel 1446 e, nel 1474, Francesco.
La famiglia Della Leonessa, una delle più illustri del Regno, aveva addirittura coniato moneta, sostenendo i più alti incarichi del Regno, finendo con l’abitare in Napoli, alla via SS. Apostoli, quella stessa casa che era stata di San Tommaso d’Aquino. Alfonso della Leonessa, nipote e successore di costui, mettendosi fra i ribelli al Re Ferrante d’Aragona, fallita la congiura, passò con tutti gli altri paesi della Valle Caudina dalla parte del duca Giovanni, figlio di Renato d’Angiò, mentre era in guerra con gli Aragonesi, proprio nel Sannio. Persa la guerra, fu privato di tutti i beni che, nel 1461, furono affidati al fedelissimo Fabrizio della Leonessa, cugino di Alfonso, che nel 1488 aveva già venduto Cervinara a Carlo Carafa, marchese di Montesarchio e conte di Airola, ai quali, nel 1500, si aggiunse anche Rotondi.
Il Carafa sposò Eleonora della Leonessa, figlia di Alfonso, permettendo una certa continuità nella successione per tutto il dominio aragonese e spagnolo che declassava il Regno di Napoli, già senza Sicilia, a Viceregno. Una volta morto Carlo Carafa, i feudi furono rilevati presso la Regia Corte, nel 1515, dal figlio Giovan Vincenzo, il quale, fu incaricato dall’imperatore di avere cura delle fortezze di Napoli. Ritiratosi a Montesarchio con l’arrivo dei Francesi, Vincenzo non ci pensò su due volte e passò dalla loro parte nell’invasione del regno e nella spedizione francese del Lautrec Odet de Foix.
Dichiarato ribelle dagli spagnoli, gli furono confiscati i beni; morì durante l’assedio di Napoli nel 1528. Avuta la meglio gli Aragonesi, in quell’anno, Cervinara, acquisita dal Vicerè Principe D’Orange passò alla Corte di Napoli.
Nel 1532 il re di Spagna Carlo V la donò, insieme ai suoi 11 Casali e alle 240 famiglie, ad Alfonso D’Avalos, marchese del Vasto, Gran Camerario del Regno e capitano generale di fanteria, come ricompensa dei servizi resi durante l’assedio di Napoli. A quei tempi Cervinara possedeva boschi e selvaggina e produceva vino in quantità e granaglie a sufficienza: era sempre uno dei Comuni più grandi del Principato Ultra.
In più, nel 1590, fra le proprietà ecclesiastiche beneventane, abbiamo notizia certa di beni anche presso un altro Casale detto delli Rutundi (Rotondi). Si tratta di ben 13 chiese. Altri d’Avalos che tennero Cervinara furono il figlio di Alfonso, Ferrante (1546), e il nipote Alfonso II (1571) che nel 1573 vendé il feudo, unitamente a quello di Rotondi e Campora per 17.000 ducati a Giovan Felice Scanalone (o Scalaleone) di Teano, illustre giureconsulto e professore dell’Università di Napoli, al quale seguì il figlio Giulio.
Vale la pena di ricordare che in questo periodo Cervinara visse un momento culturale abbastanza alto per la presenza, nel campo ecclesiastico, di fervidi studiosi. Il 29 maggio del 1597 ritroviamo il feudo di Cervinara nelle mani di Berardino Barionovi, segretario del Regno, cui fanno menzione tutti gli scrittori fra cui Toppi e Campanile, in favore del quale, Giulio, lo aveva alienato per 30.000 ducati; l’ufficialità sarebbe però avvenuta solo nel 1602, allorquando l’ebbe Barionovi (Barrionuevo), Consigliere del Re Filippo III di Spagna e Reggente del Supremo Consiglio d’Italia.
Questo nobile uomo donò Cervinara al figlio Francesco che aveva ottenuto da re di Spagna Filippo III il titolo di marchese di Cervinara ma, passato a miglior vita nel contempo, titolo e feudo ricaddero sul padre Bernardino che, nel 1606, ottenne dal re la possibilità di mutare il titolo con quello di marchese di Cusano, fino a vendere l’antico feudo (1607) a Beatrice Caracciolo, marchesa di Volturara Appula, per 40.000 ducati. Nel 1608, alla marchesa successe il figlio Giuseppe Caracciolo che, l’anno dopo, vendé all’Università di Cervinara diverse concessioni, rendendo esenti i cittadini da alcuni obblighi feudali.
L’Università si riuniva una volta all’anno, alla fine di agosto, per eleggere almeno tre cittadini modello tra magnifici (viventi del proprio), massari, commercianti ed artigiani proposti dalla stessa amministrazione uscente. Il pubblico parlamento eleggeva i nuovi, “per voce” e con alzata di mano, per l’amministrazione annuale dei beni comuni, o della Comune, della Terra di Cervinara appunto, detti eletti (assessori), insieme ad un cancelliere del regno, che li aiutava nell’amministrazione delle tasse.
Eppure ci sarebbe stato un caso, nel 1777, in cui il parlamento si rifiutò di votare la formazione, provocando la reazione dei benestanti. A Cervinara come a Rotondi vi dimorò per lungo tempo la nobile famiglia dei Caracciolo di Sant’Eramo, prima della vendita della Casa Palazziata cervinarese al conte Del Balzo di Presenzano, ai discendenti del quale è rimasto quello che fu detto Palazzo Marchesale che ancora vediamo a Ferrari.
Successo nel 1623 al fratello Giuseppe, il 7 aprile 1629, Francesco sposò Porzia Caracciolo e ottenne il privilegio di mutare nuovamente il titolo con quello di marchese di Cervinara, per sé e per i suoi discendenti Giovanbattista, Marino, Pasquale I, Antonio, Pasquale II, Carlo, Onorato, Marino IX marchese di Volturara e marchese di Sant’Eramo, Onorato e Marino, che mantennero le cariche per tutto il regno dei Borboni, fino all’abolizione della feudalità da parte dei Francesi con la legge del 1806.